Campriani ha chiuso la propria carriera a Rio con l'oro nella carabina 3 posizioni. Tre anni più tardi è arrivata la decisione di riconciliarsi con il proprio sport e anche con se stesso. A 31 anni Niccolò ha capito che poteva utilizzare la propria visibilità di campione olimpico per ispirare altri atleti e "rendere questo mondo un posto migliore attraverso lo sport".
"Tutto è partito dall’ultimo colpo che ho tirato a Rio", racconta Campriani. "Quella medaglia d’oro in realtà avrebbe dovuto essere d’argento, visto che avevo vinto per uno sbaglio del mio avversario. In quel momento facevo fatica ad essere identificato come campione olimpico in quella specialità (carabina a 50m) e per cercare di fare pace un po’ con me stesso avevo deciso di donare la differenza di premio tra l’argento e l’oro all’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione della crisi dei rifugiati. Qualche tempo più tardi venni invitato dalla stessa UNHCR a Meheba in Zambia per visitare uno dei maggiori campi per rifugiati in Africa. Quella fu un’esperienza molto forte e gratificante".
Campriani vive ora a Losanna, in Svizzera, dove lavora per il Comitato Olimpico Internazionale dal 2017. "L’idea all’inizio era cominciare ad aiutare un paio di ragazzi rifugiati a raggiungere il punteggio minimo di qualificazione olimpica per Tokyo nella mia disciplina, che è la carabina ad aria compressa da 10 metri. L’idea era quella di far vedere che da campione olimpico hai accesso a un network unico, hai un opportunità di raggiungere velocemente un grande numero di persone nel caso di raccolta fondi".
"L'obiettivo è quello di ispirare il prossimo campione olimpico, che non deve essere per forza del tiro e non deve essere per forza italiano, a fare la stessa cosa con la propria comunità di rifugiati. Alla fine è uno scenario 'win win’ dove aiuti questi ragazzi a integrarsi attraverso lo sport, ma allo stesso tempo fai qualcosa di buona per te stesso". Una delle difficoltà maggiori per molti atleti che si sono ritirati è quella di trovare degli obiettivi e delle nuove motivazioni, qualcosa che rappresenti uno stimolo vero".
Campriani aveva presentato il proprio progetto all'ufficio immigrazione di Losanna alla fine del 2018. Sono poi iniziati i colloqui con i primi candidati e alla fine il processo di selezione ha premiato tre ragazzi. Un uomo, e due donne . "Abbiamo rivelato il Paese di origine solo di Mahdi", ha spiegato il tre volte olimpionico. "Ognuno ha la sua motivazione. Sono motivazioni diverse e personali, legate all’aspetto umano".
"Il mio ruolo di atleta e campione olimpico non si esaurisce quando tiro il mio ultimo colpo di gara in un’Olimpiade. Essere chiamato campione olimpico è una responsabilità ma anche un’opportunità unica perché sei un role model e in quanto tale hai il potere di influenzare le persone intorno a te".
In questo progetto Niccolò si è immedesimato con i tre ragazzi rifugiati. "Con le debite proporzioni, ma un ex atleta di fatto vive questo momento di ridefinizione dell’identità, per certi versi è qualcosa di simile a quello che vive un ragazzo in un nuovo Paese, dove si ricomincia da zero in un nuovo posto, con un nuovo network, cercando di costruire un nuovo io". "Non è solo una questione di buoni propositi. Quindi anche per me è un modo prima di tutto per fare un po’ pace con il mio sport. Dopo la finale Olimpica di Rio non avevo più tirato nemmeno un colpo, perché ero saturo e come succede spesso nello sport di elite tutto diventa un’ossessione."
Lo scorso febbraio Niccolò ha preso in mano una carabina per la prima volta dopo quasi tre anni.
"Ho dovuto chiedere al Museo Olimpico, non senza un po’ di vergogna, quella che avevo donato dopo Rio, spiegando che l’avrei restituita dopo un anno", ha ammesso.
"Tutto l’attrezzatura che ci serviva, dai bersagli elettronici alle carabine ad aria compressa, agli indumenti e così via, sono state tutta donazioni da parte dei miei sponsor precedenti, dei miei colleghi, tiratori di altre nazionali...Una volta spiegato il progetto, ognuno ha scelto di contribuire".
"Noi siamo una famiglia, alla fine negli ultimi anni ho passato più tempo con Sergey Kamenskiy, che è il ragazzo che fece l’errore a Rio che con mia madre! Credo sia un po’ il progetto della nostra comunità, dove tutti si sentono un po’ parte in causa. Vediamo, l’idea è poi quella di uscire fuori dal tiro. Io per le tecniche di respirazione ho lavorato con campioni d’apnea, saltatori di sci, ho sempre cercato sinergie con mondi che non sono il mio. L’idea è quella di esporre questi ragazzi a questo network".
"L’obiettivo è qualificarsi, anche se l’obiettivo vero è poi quello di vivere questa esperienza insieme" rivela Campriani. "Io ci ho messo quasi due anni per raggiungere il punteggio minimo di qualificazione olimpica. Questo non vuol dire che vai automaticamente alle Olimpiadi, ma che hai i requisiti per essere selezionato come wild card. Questi ragazzi si stanno allenando di fatto in isolamento: non siamo in un poligono, ma in un centro per il tiro con l’arco. Quindi non vedono altri tiratori che possono copiare e non possono confrontarsi. L’unico riferimento sono io quando faccio delle gare insieme a loro".
"Se le cose vanno come dovrebbero, almeno uno dei ragazzi dovrebbe arrivare a Tokyo. Lo si saprà a giugno quando l’Executive Board annuncerà il team di rifugiati. Il progetto non penso finirà mai, per quello che ho vissuto finora e che vivrò anche il prossimo anno credo che rimarrò in contatto per sempre con questi ragazzi". Dopo tanti anni mi ero scordato cosa vuol dire sognare di andare a un’Olimpiade. E’ bello riviverla anche con gli occhi di un altro".